Nota dell’editore: Mentre serviva il governo inglese in India durante gli anni 1830, il politico, poeta e storico Thomas Babington Macaulay filava racconti semi-mitici dell’antica Roma in ballate memorabili o “lays”. Il suo lays più famoso fu “Horatius”, una ballata che raccontava il leggendario coraggio di un antico ufficiale dell’esercito romano, Publius Horatius Cocles. Nel quinto secolo a.C., Roma si ribellò al dominio etrusco e spodestò il loro ultimo re, Lucio Tarquinio Superbo, per formare una repubblica. Ma il re si rifiutò di andare tranquillamente nella notte; arruolò l’aiuto di Lars Porsena di Clusium nel tentativo di rovesciare il nuovo governo romano e ristabilire il suo regno.
In una battaglia contro gli Etruschi che si avvicinavano, l’esercito romano affrontò la sconfitta e cominciò a ritirarsi attraverso il ponte che attraversava il fiume Tevere; è qui che lasceremo che il poema raccolga il racconto eroico.
Come abbiamo menzionato questa settimana in un post sul codice morale di Winston Churchill, questo era uno dei poemi preferiti dello statista. Ha memorizzato tutte le 70 strofe da ragazzo per ispirarsi a sviluppare il coraggio, e avrebbe recitato la poesia per tutta la vita. Poiché il “laico” è così lungo, abbiamo offerto una versione condensata qui sotto. Per la ballata completa, vedi qui.
“Orazio”
Da Lays of Ancient Rome, 1842
di Thomas Babington Macaulay
Ad est e ad ovest
si sono estese le bande toscane,
Né casa, né recinto, né colombaia
In Crustumerium sta.
Verbenna fino a Ostia
ha devastato tutta la pianura;
Astur ha preso d’assalto Gianicolo,
e le robuste guardie sono state uccise.
Sapevo che in tutto il Senato
non c’era un cuore così ardito
ma soffriva, e batteva forte,
quando fu data quella brutta notizia.
Poi si alzò il console,
si alzarono tutti i padri;
in fretta e furia si cinsero le vesti,
e si legarono al muro.
Tennero un consiglio, in piedi
di fronte alla porta del fiume;
poco tempo ci fu, si può ben immaginare,
per riflettere o discutere.
Poi il console parlò chiaro:
“Il ponte deve crollare subito;
perché, visto che il Gianicolo è perduto,
null’altro può salvare la città.”
Proprio allora un esploratore venne in volo,
tutto selvaggio per la fretta e la paura:
“Alle armi! Alle armi! Signor console, –
Lars Porsena è qui.”
Sulle basse colline a ovest
il console fissò lo sguardo,
e vide la tempesta di polvere scura
salire veloce nel cielo.
E sempre più vicino
viene il turbine rosso;
e più forte ancora e ancora più forte,
da sotto quella nuvola rotolante,
si sente la nota di guerra della tromba fiera,
il calpestio e il ronzio.
E chiaramente, sempre più chiaramente
Ora attraverso l’oscurità appare,
Lontano a sinistra e lontano a destra,
in bagliori spezzati di luce blu scuro,
la lunga schiera di elmi luminosi,
la lunga schiera di lance.
Velocemente accanto allo stendardo reale,
guardando tutta la guerra,
Lars Porsena di Clusium
sedeva nel suo carro d’avorio.
Alla ruota destra cavalcava Mamilius,
principe del nome laziale;
e alla sinistra il falso Sextus,
che compì l’impresa della vergogna.
Ma quando il volto di Sesto
fu visto tra i nemici,
si levò un urlo che squarciò il firmamento
da tutta la città.
Sulle cime delle case non c’era donna
che non sputasse verso di lui e sibilasse;
non c’era bambino che non gridasse maledizioni,
e agitasse il pugno piccolo.
Ma la fronte del console era triste,
e il discorso del console era basso,
e guardava cupamente il muro,
e cupamente il nemico.
“Il loro furgone sarà su di noi
prima che il ponte cada;
e se una volta possono vincere il ponte,
quale speranza di salvare la città?”
Poi uscì il coraggioso Orazio,
il capitano della porta:
“Per ogni uomo su questa terra
la morte arriva presto o tardi.
E come può l’uomo morire meglio
che affrontando paurose probabilità,
per le ceneri dei suoi padri,
e i templi dei suoi dei,
“E per la tenera madre
che lo ha cullato a riposare,
e per la moglie che allatta
il suo bambino al seno,
e per le sante fanciulle
che alimentano la fiamma eterna,
per salvarle dal falso Sesto
che ha compiuto l’atto di vergogna?
“Tira giù il ponte, signor console,
con tutta la velocità che puoi;
io, con altri due ad aiutarmi,
sarò il nemico in gioco.
In quello stretto sentiero mille
potrebbero essere fermati da tre.
Ora chi starà da una parte e dall’altra,
e manterrà il ponte con me?”
Allora uscì Spurio Larzio;
era un Ramniano orgoglioso:
“Ecco, io starò alla tua destra,
e manterrò il ponte con te.”
Erminio, forte, disse:
di sangue tizianesco:
“Starò alla tua sinistra,
e manterrò il ponte con te.”
“Orazio”, disse il console,
“Come tu dici, così sia.”
E dritti contro quel grande schieramento
andarono gli impavidi Tre.
Perché i Romani nella lite di Roma
non risparmiarono né terra né oro,
né figlio né moglie, né membra né vita,
nei coraggiosi giorni di un tempo.
Ora, mentre i Tre stringevano
i loro finimenti sulle spalle,
il Console fu il primo a prendere in mano un’ascia:
e i Padri mescolati ai Comuni
presero ascia, spranga e corvo,
e colpirono le tavole di sopra,
e sciolsero i puntelli di sotto.
Mentre l’esercito toscano, glorioso a vedersi, tornava a balenare nella luce del mezzogiorno, ranghi dietro ranghi, come ondate luminose di un mare d’oro.
Quattrocento trombe suonarono
uno scampanio di gioia guerriera,
quando quella grande schiera, con passo misurato,
e lance avanzate, e stese le insegne,
collocò lentamente verso la testa del ponte,
dove stavano gli impavidi Tre.
I Tre stavano calmi e silenziosi,
e guardavano i nemici,
e un grande grido di risate
si levò da tutta l’avanguardia:
E tre capi vennero avanti a spron battuto
di fronte a quel profondo schieramento;
salirono a terra, sguainarono le spade,
e alzarono in alto gli scudi, e volarono
per vincere la stretta via;
Aunus dalla verde Tifernum,
signore della collina delle vigne;
e Seius, i cui ottocento schiavi
soffrono nelle miniere dell’Ilva;
e Picus, da tempo a Clusium
vassallo in pace e in guerra,
che condusse a combattere le sue potenze umbre
da quel grigio dirupo dove, cinta di torri,
la fortezza di Nequinum si abbassa
sulle pallide onde di Nar.
Il robusto Lartius scagliò Aunus
nel torrente sottostante;
Herminius colpì Seius,
e lo colpì ai denti;
A Picus il coraggioso Horatius
scagliò un colpo infuocato;
e le fiere braccia dorate degli Umbri
si scontrarono nella polvere sanguinante.
Poi Ocnus di Falerii
si avventò sui tre romani;
e Lausulus di Urgo,
il predatore del mare;
e Aruns di Volsinium,
che uccise il grande cinghiale,
il grande cinghiale che aveva la sua tana
in mezzo ai canneti della palude di Cosa,
e devastò i campi e massacrò gli uomini,
sulla riva di Albinia.
Herminius ha abbattuto Aruns:
Lartius ha steso Ocnus:
Dritto al cuore di Lausulus
Horatius ha sferrato un colpo.
“Stai lì”, ha gridato, “caduto pirata!
Nessuno più, agghiacciato e pallido,
dalle mura di Ostia la folla segnerà
la traccia della tua barca che distrugge.
Non più le cerve della Campania voleranno
nei boschi e nelle caverne quando vedranno
la tua vela tre volte maledetta.”
Ma ora nessun suono di risate
si sentiva tra i nemici.
Un clamore selvaggio e furente
si levava da tutta l’avanguardia.
A sei lunghezze di lancia dall’ingresso
salì quel profondo schieramento,
e per uno spazio nessun uomo si fece avanti
per vincere la stretta via.
Ma tutti i più nobili d’Etruria
si sentirono sprofondare il cuore nel vedere
sulla terra i cadaveri insanguinati,
nel sentiero gli intrepidi tre:
E dall’ingresso spettrale
dove stavano quegli audaci romani,
tutti si ritrassero, come ragazzi che ignari,
circa i boschi per iniziare una lepre,
arrivarono all’imboccatura dell’oscuro antro
dove, ringhiando piano, un vecchio orso feroce
giace tra ossa e sangue.
Tuttavia un uomo per un momento
uscì davanti alla folla;
Era ben noto a tutti i Tre,
e lo salutarono ad alta voce.
“Ora benvenuto, benvenuto, Sesto!
Ora benvenuto a casa tua!
Perché ti fermi e ti volti?
Qui sta la strada per Roma.”
Tre volte guardò la città;
tre volte guardò i morti;
e tre volte andò avanti con furore,
e tre volte si voltò indietro per la paura:
e, bianco di paura e di odio,
guardò la strada stretta
dove, sguazzando in una pozza di sangue,
giacevano i più coraggiosi toscani.
Ma intanto l’ascia e la leva
sono state manualmente impiegate;
e ora il ponte pende traballante
sopra la marea bollente.
“Torna indietro, torna indietro, Orazio!”
Gridarono forte i padri tutti.
“Indietro, Lartius! Indietro, Erminio!
Indietro, prima che la rovina cada!”
Tornò indietro Spurio Lartio;
Erminio tornò indietro:
e, mentre passavano, sotto i loro piedi
sentirono le travi incrinarsi.
Ma quando si voltarono,
e sulla riva più lontana
videro il coraggioso Orazio da solo,
avrebbero voluto attraversare ancora una volta.
Ma con uno schianto come un tuono
cadde ogni trave allentata,
e, come una diga, il poderoso relitto
si posò proprio di fronte alla corrente:
e un lungo grido di trionfo
si levò dalle mura di Roma,
come le più alte torrette
schizzò la schiuma gialla.
E come un cavallo imperturbabile
quando sente per la prima volta il freno,
il fiume furioso si dibatteva con forza,
e gettava la sua criniera fulva,
e scoppiava il cordolo e saltava,
gioioso di essere libero,
e vorticando giù, in carriera feroce,
palazzo, e tavola, e molo,
si buttava a capofitto nel mare.
Solo stava il coraggioso Orazio,
ma sempre con la mente fissa;
Trentamila nemici davanti,
e il grande fiume dietro.
“Abbasso lui!” gridò il falso Sesto,
con un sorriso sul volto pallido.
“Ora ti arrendi”, gridò Lars Porsena,
“Ora ti arrendi alla nostra grazia.”
Si voltò, come non degnandosi
di vedere quelle vili schiere;
non parlò a Lars Porsena,
non parlò a Sextus;
ma vide sul Palatino
il bianco portico della sua casa;
e parlò al nobile fiume
che scorre presso le torri di Roma.
“Oh, Tevere! Padre Tevere!
A cui pregano i romani,
la vita di un romano, le braccia di un romano,
prendi oggi il tuo posto!”
Così parlò, e parlando inguainò
la buona spada al suo fianco,
e con i suoi finimenti sulla schiena,
si gettò a capofitto nella marea.
Nessun suono di gioia o di dolore
Si udì da entrambe le rive;
ma amici e nemici con stupore muto,
con le labbra dischiuse e gli occhi tesi,
stettero a guardare dove era affondato;
E quando al di sopra delle onde,
videro apparire la sua cresta,
tutta Roma lanciò un grido di gioia,
e anche le file della Toscana
fecero fatica a trattenersi dal rallegrarsi.
Ma la corrente correva ferocemente,
gonfiata da mesi di pioggia:
e il suo sangue scorreva veloce;
e lui era dolorante,
e pesante con la sua armatura,
e consumato da colpi cangianti:
e spesso lo credevano affondare,
ma ancora si rialzava.
Mai, credo, un nuotatore,
in un caso così malvagio,
faticò attraverso un diluvio così impetuoso
sicuro fino all’approdo:
ma le sue membra furono sostenute coraggiosamente
dal coraggioso cuore interiore,
e il nostro buon padre Tevere
salì coraggiosamente il mento.
“Maledetto!”
“Non annegherà il villano?
Se non fosse stato per questo soggiorno, prima della fine del giorno
avremmo saccheggiato la città!”
“Che il cielo lo aiuti!” disse Lars Porsena
“E lo porti a riva sano e salvo;
perché un’impresa d’armi così valorosa
non si era mai vista prima.”
E ora tocca il fondo;
Ora sta sulla terra asciutta;
Ora intorno a lui si affollano i padri;
per premergli le mani insanguinate;
E ora, tra grida e applausi,
e rumore di pianto forte,
entra attraverso la porta del fiume
portato dalla folla gioiosa.
Gli diedero della terra di grano,
che era di diritto pubblico,
quanto due forti buoi
potevano arare dalla mattina alla sera;
e fecero un’immagine fusa,
e la posero in alto,
e lì si trova ancora oggi
a testimonianza se io mento.
Si trova nel Comizio
Plain per tutta la gente a vedere;
Horatius nella sua bardatura,
Halting su un ginocchio:
E sotto è scritto,
in lettere tutte d’oro,
come valorosamente ha tenuto il ponte
nei giorni coraggiosi di vecchio.